Storia e significato dei 7 peccati capitali

Quando si parla dei sette peccati capitali si fa riferimento ad un insieme circoscritto di inclinazioni negative che hanno diversa natura. I peccati capitali, infatti, rappresentano quelle debolezze che hanno a che fare con la sfera squisitamente comportamentale, morale e in un certo senso, spirituale dell’essere umano. L’attributo ‘capitali’ deriva dal fatto che – secondo la tradizione cristiana, questi peccati sono considerati più gravi rispetto agli altri in quanto concernono una sfera più intima della natura umana.

I 7 peccati capitali nella storia della filosofia e della religione

La prima testimonianza scritta dei peccati capitali, in ambito filosofico, si deve ad Aristotele che, in uno dei suoi scritti, li definì come gli ‘abiti del male’. Questo perché i peccati, o meglio, i ‘vizi’ capitali, fanno riferimento alla tendenza – propria di alcuni esseri umani – a ripetere sistematicamente determinate azioni e ad assumere specifici comportamenti in alcuni contesti dell’esistenza. La reiterazione nel tempo di tali atteggiamenti fa sì che l’azione abitudinaria diventi vizio, ossia finisca col diventare per l’uomo che la compie una sorta di abito, che anziché essere di stoffa, è confezionato con azioni ed abitudini. A differenza delle abitudini virtuose, però, nel caso dei peccati capitali, la ripetizione costante di alcuni comportamenti non determina una elevazione dello spirito umano ma, al contrario, un suo affossamento, essendo i vizi in sé di inclinazione negativa.

La prima vera classificazione dei peccati capitali fu redatta da due monaci che, con modalità diverse, ne stabilirono definizioni e possibili rimedi. Il primo monaco fu Evagrio Pontico che si occupò di classificare i vizi capitali e – al contempo- individuò una serie di strategie per eliminarli. Secondo la classificazione di Evagrio Pontico i vizi capitali sarebbero stati originariamente 8:

  • lussuria
  • gola
  • tristezza
  • accidia
  • avarizia
  • vanagloria
  • ira
  • superbia

Revisione dei vizi

La tristezza e la vanagloria, in un secondo momento furono accorpate rispettivamente all’accidia e alla superbia.

In epoca illuminista, la riflessione sulla classificazione e sulle modalità di eliminazione dei vizi capitali andò scemando, in quanto – in piena espansione economica e commerciale- anche i pensatori si orientarono in quell’ottica di pensiero propriamente materialistica per cui il vizio, analogamente alla virtù, è in sé un’inclinazione dell’anima capace di orientare il mondo verso un interesse economico.

I peccati capitali e il loro significato

Tutta la riflessione cristiana sui sette vizi capitali, invece, si basa su un fondamento molto preciso: tutto ciò che non inclina l’animo umano verso l’Altissimo, ovvero Dio, si avvicina al vizio, e quindi al peccato capitale. Nellp specifico, i sette peccati capitali sono ciò di quanto più lontano si possa immaginare per l’anima umana rispetto al rapporto con il creatore. Dal punto di vista cristiano, poi, è possibile individuare il significato di ciascun peccato.

  1. La superbia, è il peccato di chi vive nella convinzione di essere al di sopra degli altri, materialmente e spiritualmente, arrivando – quindi – anche a disprezzare il prossimo.
  2. L’avarizia è il peccato proprio di chi tende a non spendere o donare i propri averi. E ‘ il peccato, quindi, di chi non è disposto a sacrificare sé per il prossimo.
  3. La lussuria è il peccato di chi non è in grado di placare mai il proprio appetito sessuale.
  4. L’invidia è il peccato commesso da coloro che non riescono a provare felicità per gli altri e che al contrario, percepiscono il benessere altrui come un male personale.
  5. La gola è il peccato commesso da chi non riesce mai a saziarsi, in particolare a tavola.
  6. L’ira è il peccato commesso da coloro che non sono in grado di perdonare un’azione negativa subita e che – quindi – vivono solo per vendicarla con violenza.
  7. Infine, l’accidia è propria di chi è incapace di tendere l’animo verso il prossimo, di qui – quindi – non desidera mai il bene dell’altro.